Fatima nasce nel cuore del Marocco nel 1996 e due anni dopo, nel 1998, si trasferisce in Italia con sua madre per riunirsi alla famiglia, stabilendosi in provincia di Bologna.
Quando inizia la scuola elementare, i suoi genitori, ignari del funzionamento del sistema scolastico italiano, non la accompagnano il primo giorno, lasciandola sola. È così che si perde nei corridoi della scuola, ma fortunatamente una vicina di casa la vede e le offre il suo aiuto, aiutandola a trovare la sua classe.
Essendo una delle poche ragazze di origine marocchina nella scuola, Fatima si trova a navigare tra due mondi culturali distinti, in un ambiente prevalentemente italiano poco abituato alla diversità. Tuttavia, le maestre cercano di favorire l'inclusione di Fatima e di altri studenti stranieri.
Durante le scuole medie, Fatima si trasferisce in una città dove torna a essere l'unica ragazza con il velo nella sua scuola, affrontando nuovamente le sfide dell'integrazione e della rappresentanza culturale
A causa della curiosità dei compagni relative alla sua cultura, spesso le vengono poste domande alle quali, a quell'età, non sa ancora rispondere.
Al termine delle medie, Fatima opta per il liceo delle scienze umane con indirizzo economico-sociale. Nonostante molti coetanei di origine straniera venissero indirizzati verso un istituto tecnico, i professori vedono molto potenziale in lei e la incoraggiano a perseguire un percorso più accademico.
Una delle ragioni per cui sceglie il liceo è la poca presenza di studenti stranieri, inconsciamente desidera frequentare un ambiente meno diversificato.
"Avevo interiorizzato un certo pregiudizio nei confronti di me stessa, soprattutto durante il periodo dei vari atti terroristici in Europa", afferma Fatima.
La sua fortuna sono stati i professori con una grande apertura mentale e comprensivi, che non la giudicano, ma anzi cercano di creare un ambiente inclusivo.
Durante l'ultimo anno di liceo, svolge la sua prima esperienza lavorativa come educatrice tirocinante presso un asilo.
Nel momento di scegliere l'università, opta per fisioterapia. Tuttavia, non superando il test di ammissione, decide di intraprendere gli studi in Scienze dell'educazione. Inizialmente incerta, durante un seminario un docente pronuncia questa frase illuminante: "Ragazzi, so che siete tutti persi, il primo anno non sapete ancora bene chi è questo educatore. Cos'è che bisogna fare? Ognuno di noi possiede un super potere interiore, un dono con cui riuscire poi a relazionarsi con gli altri. Dovete solo trovarlo.”
Dopo la laurea in Scienze dell'educazione, esplora diverse opportunità professionali, tra cui il servizio civile in cui organizza dei progetti Erasmus+.
Durante il periodo di quarantena causato dalla pandemia, ha aumentato l'utilizzo dei social media e ha iniziato a condividere più frequentemente le sue esperienze lavorative.
Al termine della quarantena, ha ripreso a lavorare presso un centro estivo. Qui, dopo molto tempo, si è ritrovata a dover rispondere alle stesse domande che le venivano poste molti anni prima da persone che conoscevano poco la sua cultura.
Ha colto questa opportunità per condividere le risposte su Instagram, iniziando dalla cucina marocchina e spaziando poi su vari argomenti.
Durante la laurea magistrale, Fatima ha avuto l'opportunità di lavorare come tutor in supporto della didattica mista e un tirocinio in un IeFP (percorsi di Istruzione e Formazione Professionale).
“Entri e vedi gli studenti che ti guardano perché si chiedono come abbia fatto ad essere in questa posizione” racconta Fatima “Mancano le figure dei mediatori all'interno delle scuole che potrebbero aiutare un sacco. E mancano insegnanti che siano veramente consci e consapevoli delle problematiche che gli studenti hanno.
Manca tantissima rappresentatività all'interno delle scuole perché in una scuola elementare in cui sono stata recentemente il 70% degli studenti è di origine straniera ma non c'era alcuna maestra della stessa origine.”
Ha trovato particolarmente significativa questa situazione, soprattutto perché gli studenti stessi le esprimevano le loro preoccupazioni. Alcuni di loro le confidavano:
“Non so come tu abbia fatto perché io non penso di riuscire ad arrivare a quella strada. Io vorrei fare questo lavoro qua, ma credo che alla fine andrò a fare l'operaio come mio padre.”
"Nulla togliere questo lavoro, ovviamente, però viene sentita tantissimo questa situazione."
“Cerca di capire se effettivamente ti piace davvero, perché spesso e volentieri questo lavoro viene venduto con un lavoro di beneficenza. Lavorare con i bambini in generale normodotati è difficile e ci vuole tanta pazienza, non ci vuole solo amore verso di loro ma anche avere una mano solida, cioè poter dire di no nei momenti di no, a volte ti tocca anche alzare la voce.
Se vuoi farlo per pietà non ha senso.
Ovviamente devi fare il percorso universitario, non puoi più fare questo lavoro qua semplicemente con un diploma o con una qualsiasi laurea, ma devi fare la laurea da educatore sociale. E tu già subito dopo la triennale da educatore sociale, sei abilitato a fare il lavoro, ambiente in continua ricerca di educatori, maschi soprattutto. Non è un lavoro solo da femmine, ma servono veramente tanti maschi e sfortunatamente ce ne sono ancora molto pochi.
Essendo un lavoro di cura viene ancora messo molto sotto questa lente di genere che è un lavoro al femminile.
Questo è un ambiente molto dinamico, devi essere molto flessibile all'inizio, ma anche imparare a dire di no.”
“Sii aperta alle opportunità e evita di giudicarti troppo duramente.”
“C'è tanto potenziale. Tantissimo potenziale, dobbiamo creare tanta rete tra di noi.
Potenziali in entrambi gli ambiti, da quelli scientifici a quelli umani sociali. E non saprei come dirti. Non siamo ancora visti per quello che siamo effettivamente. Cioè siamo ancora visti come la generazione prima di noi e questo è un problema perché questo poi ci porta a limitarci tanto a nostra volta.
Abbiamo interiorizzato noi stessi dei pregiudizi e stereotipi su cui dobbiamo lavorare tantissimo, oltre alle cose che ci portiamo indietro come traumi generazionali. Abbiamo interiorizzato una certa prospettiva di vedere noi stessi e questa cosa ci limita perché magari potremmo raccontarci in maniera diversa, però continuiamo a raccontarci da una prospettiva eurocentrica occidentale.
In realtà noi non siamo quello. Noi siamo delle identità con delle sfaccettature molto diverse. Ed è una cosa che ci mette dei freni perché dobbiamo fare un doppio lavoro rispetto ai nostri coetanei italiani
E il problema è che, spesso e volentieri, ci siamo fermati nella fase dove vogliamo essere accettati tutti i costi. Mentre non è importante essere accettati a tutti i costi, l'importante è trovare noi stessi. Poi di conseguenza questa cosa qua ci porterà ad attirare le persone giuste attorno a noi senza doverci adattare. “